Ogni giorno sentiamo parlare di Obesità e Diabete, vere e proprie epidemie che stanno affliggendo la nostra società, in un mondo che è
sempre più sbilanciato, dove ad oggi più di un miliardo di persone sono denutrite, ma in cui oltre due miliardi sono in sovrappeso. In un contesto di questo tipo, la domanda sorge spontanea: che ruolo hanno le Big Food, ossia le grandi industrie alimentari? L’impressione è che spesso la reale necessità non sia tanto quella di fornire la migliore nutrizione possibile alla popolazione mondiale, ma che l’unico interesse in realtà sia quello di massimizzare i profitti.
Dottor Stefanini, introduciamo il discorso. Si può dire che Fame ed Obesità siano due facce della stessa medaglia?
Il problema principale in realtà è capire se siamo davvero liberi di decidere come alimentarci, nel modo in cui crediamo, questa è la prima domanda fondamentale da porci. Chi decide cosa e se possiamo mangiare sembrerebbe una domanda retorica, anche se invece non lo è perché, ad esempio, centinaia di migliaia di persone sono malnutrite e hanno perso questo potere decisionale. Per questo la domanda “chi decide?” include la domanda “chi è escluso dal processo decisionale? Ecco quindi si capisce come cibo e potere siano strettamente legate tra di loro e l’incidenza di fame e malnutrizione vada di pari passo con la mancanza di
potere decisionale, politico ed economico, sia a live lo globale che familiare. Cito testualmente il rapporto dell’ inviato speciale delle Nazioni Unite per il diritto al cibo “ Il sistema alimentare globale non è un mercato competitivo di piccoli produttori ma un vero e proprio oligopolio”
Si può quindi affermare che tuttò ciò riguarda anche noi, paese sviluppato, o sia peculiarità solamente dei cosiddetti “paesi poveri” in cui mancherebbe la totale libertà di scelta?
Questo è un discorso più di reale potere d’acquisto, di potere socio-economico, di non trovarsi nella situazione di dover risparmiare quando dobbiamo acquistare cibo, sicuramente ciò influenza fortemente la nostra scelta.
Paradossalmente, ma in fondo anche volutamente, gli alimenti più economici sono di solito anche quelli meno nutritivi, in particolare ci riferiamo agli alimenti più pubblicizzati, a cui accostiamo il termine Junk Food, in cui quasi sempre il target principale sono i bambini. Sono questi i prodotti nei quali si ha il maggior margine di profitto poiché contengono la minor percentuale di materie prime nutritive, cioè ciò che ha un reale costo, mentre sono imbottite di zuccheri aggiunti e conservanti, che gli permettono di rimanere sugli scaffali per mesi e di fatto falsando il vero obiettivo che dovrebbe avere il cibo, ossia quello di nutrire.
Dopo la seconda guerra mondiale, gli alimenti provenienti dagli Stati Uniti erano considerati “per pochi”. L’avvento dei cibi industriali ha decisamente cambiato le abitudini alimentari degli italiani.
In un certo senso, industrializzazione alimentare significa perdita di genuinità.
Esiste un periodo ben preciso nel quale è avvenuta questa inversione di tendenza?
Questa inversione di tendenza sta ancora avvenendo, viene chiamata dagli esperti “transizione nutrizionale”, altro non è che il passaggio da diete tradizionali, fatte di alimenti genuini anche quando non sono estremamente nutritivi, a regimi alimentari caratterizzati da prodotti ultra-trasformati e ultra-lavorati.
Una grossa influenza in questo processo è esercitata pure dal passaggio socio-economico della nostra cultura verso una società neo-liberista, sempre più incentrata sul profitto, sul mercato, in cui l’industria alimentare è concentrata nelle mani di pochi, le grandi multinazionali, la cui corsa sfrenata al guadagno si scontra con il danno provocato alla salute dei consumatori.
Più un cibo è trasformato, più l’industria alimentare acquisisce profitto.
Non è illogico tutto questo?
Voglio dire: la maggiore lavorazione dovrebbe aumentare i costi, non ridurli.
Ciò che illogico per noi, è totalmente logico per le industrie.
Per loro funziona solamente la logica del profitto, tutte le altre cosiddette “esternalità” vengono considerate come effetti collaterali. Ad esempio, le disuguaglianze a livello economico che si riscontrano a livello mondiale, sono delle esternalità ampia-
mente conosciute e accettate, chi trae profitto da questo sistema è in grado di affermare che ne valga la pena.
Il 2016 è stato l’anno in cui i decessi per obesità, hanno superato quelli per denutrizione. Professore, è davvero così preoccupante la situazione?
Direi di sì, la tendenza è chiara, la salute, a livello mondiale, sta peggiorando anche a causa dell’alimentazione che si segue. Mentre nei paesi “ricchi” in qualche modo ci si sta organizzando per invertire questo trend, è proprio nei paesi a basso reddito in cui le industrie alimentari stanno concentrando i loro sforzi. Continuiamo a pensare che nei paesi poveri si muoia di Ebola o di malattie infettive, quando invece ad uccidere sono le patologie cardiovascolari, diabete e cancro. Guardando all’Italia, la situazione non è tanto diversa, i “nostri” poveri andranno incontro allo stesso destino, sono tendenzialmente malnutriti, che non vuol dire solo mangiare poco ma anche male. Per alimentarsi in maniera corretta bisogna ricordare che non serve solamente introdurre un certo numero di calorie, ma è importante inserire una certa quota di nutrienti, proteine, carboidrati, vitamine, sali minerali, che sono normalmente contenuti negli alimenti. C’è malnutrizione ogni qualvolta si pensi solamente alle calorie e non ai nutrienti. Le stesse industrie alimentari che propongono cibo “spazzatura”, da loro stessi definito, ci offrono pure cibo light, healthy che comunque risulta processato e lavorato. Siamo in una sorta di cortocircuito. Siamo e rimaniamo vittime di questi che altro non sono che dei veri e propri “specchi per le allodole”, continuamente ci vengono propinate nuove “invenzioni” utili a controllare il peso o ad avere un corpo scolpito, ma sempre di cibo spazzatura si tratta.
Come sta affrontando il tema e quale posizione sta prendendo la Comunità Scientifica a riguardo?
La Comunità Scientifica, da una parte, afferma ciò che ci stiamo dicendo, ossia che il mondo alimentare, a livello globale, è nelle mani di pochi, quei pochi che seguono unicamente le logiche del profitto, esponendo la popolazione mondiale ad innumerevoli rischi.
Che cosa si sta facendo? C’è da dire che l’industria alimentare è estremamente forte. Facciamo un esempio: l’industria del tabacco è già da tempo che sta adottando strategie per far fronte alla perdita di mercato degli ultimi anni, oltre 50 anni dopo, da quando fu scientificamente dimostrato che il fumo di sigaretta provochi il cancro.
Di fronte all’evidenza, l’industria alimentare si comporta nello stesso modo, applica le stesse strategie dell’industria del tabacco, nella fattispecie utilizza l’arma della lobby sugli enti regolatori e sui governi, coopta ed utilizza esperti internazionali subordinati all’industria, promuove pubblicità ingannevoli indirizzate soprattutto verso i più piccoli, spesso utilizzando testimonial di fama mondiale e di grande impatto, esercita tattiche estremamente aggressive verso le economie emergenti, creando un grande danno a quella fascia di popolazione che meno è in grado di conoscere e quindi di scegliere.
Abbiamo accennato ai Governi, come stanno intervenendo per contrastare le politiche delle Big Food?
La risposta è tendenzialmente poco, per adesso, anche se la situazione cambia da governo a governo.
La difficoltà principale sta nel riuscire a tradurre i risultati scientifici, di ricerca, in risultati politici. Se fare ricerca è relativamente “facile”, lo stesso non si può dire del fare politica. Le difficoltà si incontrano sia a livello centrale che a livello regionale e locale: al politico non basta l’evidenza scientifica, necessita di consensi, autorità, capacità di elaborare strategie. In questo quadro, l’industria alimentare specula e guarda solo ai propri interessi. L’Italia è conosciuta in tutto il mondo per il Turismo e per l’Alimentazione: si mangia ancora bene in Italia? Come facciamo per difendere la nostra tradizione dalle campagna spregiudicate delle grandi industrie del cibo?
Bisogna sempre considerare l’aspetto di appartenza all’Unione Europea e che il sistema si sta evolvendo utilizzando sempre di più criteri economici per formulare le proprie politiche. Si capisce quindi come la dimensione locale vada a perdere la sua importanza.
L’Italia dovrebbe difendere le proprie specificità e particolarità, adottando quegli interventi che a livello globale hanno permesso di ridurre il danno dovuto a questo tipo di alimentazione, penso ad esempio alla tassa sugli zuccheri, sulle bevande zuccherate, che sta dimostrando avere un impatto positivo sulla salute e sui consumi. Se cominciamo però a far pagare di più quello che oggi costa poco, la situazione diventa però molto difficile. Cosa ci rimane da acquistare a questo punto?
Per reagire ed uscire da questa situazione è naturale che la società vada aiutata dalla struttura sociale di cui fa parte, mi riferisco al governo in tutte le sue forme, sia a livello locale che centrale.
Il singolo individuo deve essere messo nelle condizioni di poter scegliere tra l’alimento sano e quello non sano, ad esempio con interventi di tipo fiscale, come prima accennato, o con la regolamentazione di “tetti” per quanto riguarda i prezzi dei cibi sani, come frutta e verdura, sostanzialmente meno tasse per tutto ciò che concerne un’ alimentazione salutare. E’ ovvio che incentivi come questi possono essere messi in pratica solo da un Governo realmente interessato alla salute dei cittadini. Se invece ci si rivolgesse all’industria questa adotterebbe le sue soluzioni, tipo l’autoregolamentazione del mercato che aprirebbe a scenari piuttosto preoccupanti. La chiave quindi è un dialogo serio tra Governo e Industrie, con un approccio decisamente più critico dei primi verso i secondi.
Come capire cosa comprare per nutrirsi?
Il buonsenso è da sempre un’ottima guida in questo senso, favorire cibi freschi e non conservati, preferire le reti di distribuzione locale e cercare di evitare quanto più possibile i grandi supermercati e i cibi industrializzati, ritornare quindi ad un modello “Km zero”, dando la precedenza alle tantissime reti territoriali di contadini che da sempre lottano per la sovranità alimentare. Rimane fondamentale rifarsi al vecchio, ma quanto mai utile, principio di precauzione, ossia che nel momento in cui ci fosse qualcosa di nuovo proposto dall’industria, è lei stessa a provarmi che “fa bene” e non il contrario, spetta alle Big Food l’onere della prova e non l’opposto come spesso sta accadendo ai giorni nostri.
Concludo citando George Orwell nel suo libro “1984”, “I santi devono sempre essere giudicati colpevoli fino a quando non dimostrati innocenti”.
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